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Il procedimento denominato Project Mirror Intelligence – elaborato dal gruppo Tusci@network – ha l’obiettivo di fornire al navigatore una selezione ragionata di informazioni di natura economico–statistica in grado di riflettere la situazione contingente del “Sistema–Italia”.

L’Instant Book “Start PMI” ha cadenza mensile. I dati contenuti in questo numero sono aggiornati al 29/2/2020.

Autori:

Riccardo Cerulli

Francesco Cacchiarelli

INDICE

  1. Congiuntura flash – Centro Studi Confindustria – Febbraio 2020
  2. Come, ma soprattutto dove, investono le imprese italiane? – Focus n. 06 Servizio Studi BNL – 25 febbraio 2020
  3. Nota mensile sull’andamento dell’economia italiana – ISTAT – Febbraio 2020
  4. Mise presenta insieme con Unioncamere i nuovi incentivi per tutelare brevetti, marchi e disegni industriali – Comunicato stampa Unioncamere – 21 febbraio 2020
  5. Negozi nei centri storici delle principali città italiane e la potenziale desertificazione come una delle determinanti del disagio sociale – Ufficio Studi Confcommercio – Febbraio 2020
  6. Congiuntura Confcommercio – Ufficio Studi Confcommercio – Febbraio 2020
  7. Fiducia dei consumatori e delle imprese – ISTAT – febbraio 2020

 

ESTRATTO

2. Come, ma soprattutto dove, investono le imprese italiane? – Focus n. 06 Servizio Studi BNL – 25 febbraio 2020

I numeri sulle attività finanziarie delle imprese italiane raccontano un cambiamento nell’allocazione delle risorse tra le diverse tipologie di investimento, sia produttivo, nazionale ed estero, che finanziario.

L’incertezza dello scenario economico porta, ad esempio, le imprese ad aumentare le risorse accantonate sotto forma di liquidità. Negli ultimi sei anni, le società non finanziarie hanno lasciato nei loro depositi bancari oltre 115 miliardi di euro, portando il saldo complessivo al di sopra dei 370, mentre la propensione a realizzare investimenti produttivi si è mantenuta bassa, mostrando un ritardo in termini di spesa annua di circa 20 miliardi rispetto al periodo precedente la crisi.

I dati sulle attività finanziarie raccontano anche la storia di un profondo processo di internazionalizzazione, che ha portato gli imprenditori a concentrarsi sempre più verso mercati e paesi esteri. In quasi venticinque anni, le imprese italiane hanno investito circa 280 miliardi di euro nel capitale di società straniere, destinandone poco più di 200 all’investimento nelle aziende italiane. Un processo che ha interessato quasi tutti i settori, sebbene con intensità differente.

Con il passare degli anni, sono cambiate le motivazioni che spiegano l’internazionalizzazione delle imprese italiane. All’inizio ci si spostava per ridurre i costi produttivi. Oggi, è divenuto centrale l’accesso ai nuovi mercati. Si va all’estero per conquistare nuova domanda e compensare la persistente debolezza dei consumi interni.

Come, ma soprattutto dove, investono le imprese italiane?

I numeri sulle attività finanziarie delle imprese italiane raccontano un profondo cambiamento nelle scelte su come allocare le risorse disponibili tra le diverse opportunità di investimento, sia produttivo, nazionale ed estero, che finanziario.

La persistente incertezza, che avvolge lo scenario economico complessivo da ormai alcuni anni, porta, ad esempio, le imprese ad aumentare le risorse accantonate sotto forma di liquidità. Negli ultimi sei anni, le società non finanziarie italiane hanno lasciato nei loro depositi bancari oltre 115 miliardi di euro, portando il saldo complessivo al di sopra dei 370 miliardi. La propensione a realizzare investimenti si è, invece, mantenuta bassa, mostrando un ritardo di 20 miliardi in termini di minore spesa annua rispetto al periodo precedente la crisi.

I dati sulle attività finanziarie raccontano anche la storia di un profondo processo di internazionalizzazione, che ha portato gli imprenditori a concentrarsi sempre più verso mercati e paesi esteri. In quasi venticinque anni, le imprese italiane hanno investito circa 280 miliardi di euro nel capitale di società straniere, destinandone poco più di 200 all’investimento nelle aziende italiane.

I numeri sulle multinazionali descrivono bene questo processo. Le imprese estere a controllo italiano sono circa 23,7mila. Gli addetti sono quasi 1,8 milioni, il 10% di quelli impiegati nelle aziende nazionali. Il fatturato prodotto ha raggiunto i 538 miliardi di euro, il 15% di quello interno. Nel 2008, questi rapporti si fermavano al 7% e al 10%. Un processo che ha interessato quasi tutti i settori, sebbene con intensità differente. Da un punto di vista geografico, è cresciuto il peso degli Stati Uniti, del Brasile e della Cina, mentre si è ridotto quello della Romania. Rimane importante l’investimento nel tessuto imprenditoriale francese e tedesco.

Con il passare degli anni, sono cambiate le motivazioni che spiegano l’internazionalizzazione delle imprese italiane. All’inizio ci si spostava per ridurre i costi produttivi. Oggi, è divenuto centrale l’accesso ai nuovi mercati. Si va all’estero per conquistare nuova domanda e compensare la persistente debolezza dei consumi interni.

Imprese: si riducono gli investimenti produttivi, crescono quelli finanziari

Negli ultimi dieci anni, la propensione delle imprese italiane a realizzare investimenti produttivi si è ridotta sensibilmente. Prima della crisi, le società non finanziarie investivano in media quasi un quarto del valore aggiunto prodotto ogni anno. In valore, circa 170 miliardi di euro venivano destinati a rafforzare la capacità produttiva del sistema imprenditoriale. Durante le due recessioni, la spesa per investimenti era crollata, scendendo intorno ai 140 miliardi.

La moderata ripresa della crescita, iniziata nel 2014, ha favorito un graduale recupero degli investimenti, che hanno superato nuovamente i 170 miliardi, andando oltre i valori degli anni precedenti la crisi. L’aumento della spesa nel capitale produttivo delle imprese è risultato, però, inferiore a quello del valore aggiunto. La propensione ad investire risulta ancora circa 2,5 punti percentuali al di sotto del livello del 2007. Un ritardo significativo: con un valore aggiunto superiore agli 800 miliardi, si tratta di circa 20 miliardi di minori investimenti produttivi effettuati ogni anno dalle imprese italiane.

Un ritardo che non rappresenta la conseguenza di un problema di risorse, quanto piuttosto il risultato di un profondo processo di cambiamento nelle scelte delle imprese su come allocare la liquidità disponibile tra le diverse opportunità di investimento, sia produttivo, nazionale ed estero, che finanziario.Nella prima parte degli anni Duemila, la più alta propensione a realizzare investimenti produttivi si accompagnava ad un flusso costante di nuove risorse accantonate nelle attività finanziarie, che si avvicinava a 60 miliardi di euro medi annui. Tra il 2008 e il 2013, la flessione dell’attività economica, congiuntamente ad una significativa pressione sui margini, avevano condotto sia ad una caduta degli investimenti produttivi che ad un taglio di quelli finanziari, il cui flusso medio annuo era crollato poco sopra i 10 miliardi.

Con la fine della recessione e l’inizio di una fase di moderata ripresa, sfociata nella sostanziale stagnazione del 2019, si è assistito ad una diversa evoluzione delle scelte: mentre la propensione a realizzare investimenti produttivi si è mantenuta bassa, il flusso medio annuo di nuove risorse destinate agli investimenti finanziari è aumentato sensibilmente, superando i 50 miliardi di euro.

Quanto accaduto, ha consentito al valore dell’investimento finanziario delle imprese italiane di recuperare tutto quello che era stato perso durante le recessioni, sia come risultato delle brusche flessioni delle quotazioni che come conseguenza dei minori flussi di investimento annuali.

Il valore delle attività finanziarie detenute dalle imprese italiane, misurato al netto dei crediti commerciali, che, riguardando l’attività tipica delle imprese, sono più il risultato di quanto accade alla congiuntura complessiva che il frutto delle decisioni di investimento, dopo essere aumentato da 333 miliardi di euro del 1995 a 1.051 del 2007, era, infatti, sceso sotto i 900 nel 2008. L’accelerazione nei flussi degli investimenti, sperimentata a partire dal 2014, con oltre 270 miliardi di nuove risorse destinate dalle imprese all’investimento in attività finanziarie, ha portato il valore complessivo del portafoglio ad avvicinarsi ai 1.200 miliardi, raggiungendo il livello più alto degli ultimi venti anni.

L’aumento della ricchezza finanziaria nasconde, però, dinamiche differenti, che meritano di essere approfondite. Una pluralità di fattori hanno, infatti, guidato non solo la dimensione dei nuovi flussi investiti, quanto soprattutto la scelta tra le diverse tipologie di investimento disponibile.

Aumenta l’attenzione per la liquidità, cresce il saldo dei depositi.

Leggendo i numeri sugli investimenti finanziari, un primo elemento appare con chiarezza: la persistente incertezza che caratterizza lo scenario economico complessivo ormai da alcuni anni ha portato le imprese italiane ad accrescere la quantità di risorse accantonate sotto forma di liquidità, nonostante i rendimenti praticamente nulli offerti dal mercato.

Tra il 2000 e il 2007, le società non finanziarie italiane avevano investito in media ogni anno 15 miliardi di euro di nuove risorse nei depositi, un flusso che durante la crisi si era, però, ridotto a 7 miliardi. Dal 2014, nonostante il moderato miglioramento sia delle condizioni economiche generali che di quelle finanziarie dell’intero sistema produttivo italiano avrebbe dovuto indirizzare verso la ricerca di nuove opportunità imprenditoriali, i flussi medi annui di risorse accantonate nei depositi bancari sono cresciuti notevolmente, superando i 22 miliardi. Negli ultimi sei anni, le società non finanziarie hanno lasciato nei loro depositi oltre 115 miliardi, portando il saldo complessivo al di sopra dei 370 miliardi. In questo modo, le riserve di liquidità sono arrivate ad assorbire quasi un terzo del totale delle attività finanziarie, dal 20% del 2007.

Il cambio di prospettiva nelle decisioni delle imprese su come allocare le risorse disponibili appare ancora più evidente confrontando il valore del saldo dei depositi con quello degli investimenti produttivi effettuati ogni anno. Nel 2000, i depositi erano pari a quasi 115 miliardi di euro, circa il 90% degli investimenti realizzati quell’anno. Nel 2004, i due valori coincidevano ed erano pari a 150 miliardi. Con la crisi, gli investimenti produttivi hanno sofferto, mentre i depositi sono aumentati in maniera significativa.

A settembre 2019, i 370 miliardi di euro di depositi erano, infatti, pari a più del doppio dei quasi 180 miliardi di investimenti effettuati nell’ultimo anno.

Un problema di fiducia che porta le società non finanziarie ad accantonare parte delle risorse disponibili in impieghi non produttivi piuttosto che investire nel rafforzamento dell’attività imprenditoriale. Tutto questo si ripercuote sulla capacità dell’intero sistema di generare ricchezza. Negli ultimi dieci anni, alcune volte, i nuovi investimenti non sono stati neanche sufficienti a compensare l’invecchiamento del capitale misurato dall’ammortamento. Una criticità che ha interessato in particolare la componente dei macchinari.

Cresce l’investimento in azioni, soprattutto quelle estere

I numeri sulle attività finanziarie detenute dalle aziende italiane raccontano, però, anche la storia del profondo processo di internazionalizzazione che negli anni ha portato gli imprenditori a concentrare sempre più la loro attenzione verso mercati e paesi esteri, destinandovi una quota crescente delle proprie risorse.

Alla metà degli anni Novanta, le società non finanziarie investivano complessivamente in azioni e partecipazioni 175 miliardi di euro. Emergeva una concentrazione nel capitale delle società residenti in Italia, mentre la quota di quelle estere risultava estremamente limitata. Si trattava, dunque, della rappresentazione contabile di gruppi di imprese operanti per la maggior parte all’interno del Paese.

Dalla metà degli anni Novanta le aziende italiane iniziarono, però, ad investire sempre di più all’estero, sebbene rimanesse anche una profonda attenzione per il mercato interno. Tra il 1995 e il 2007, le società non finanziarie investirono in media ogni anno più di 8 miliardi di euro nel capitale di imprese estere, portando l’investimento complessivo oltre i 150 miliardi. Si trattava, però, di un valore ancora molto distante dai più di 520 miliardi investiti nel capitale di aziende italiane, un comparto che in quei dieci anni aveva beneficiato di un flusso medio annuo di nuove risorse prossimo ai 15 miliardi.

Con la crisi, la situazione cambiò radicalmente. Le difficoltà che caratterizzavano l’economia italiana spinsero le imprese a prestare sempre più attenzione verso l’estero.

Tra il 2008 e il 2013, le aziende investirono in media ogni anno oltre 15 miliardi di euro nel capitale di imprese straniere, un importo solo di poco superiore ai quasi 14 miliardi disinvestiti dal capitale di società residenti in Italia. In questo periodo, si assistette, dunque, ad uno spostamento di risorse dal sistema imprenditoriale italiano verso quello estero, per un importo complessivo superiore agli 80 miliardi. Alla fine della seconda recessione, nel portafoglio finanziario delle imprese italiane, il valore delle azioni estere aveva superato quello delle partecipazioni nazionali, anche come conseguenza della brusca flessione delle quotazioni che aveva interessato in modo particolare la componente interna.

Negli ultimi sei anni, la situazione sembra aver trovato un nuovo equilibrio, con un interesse costante da parte delle imprese per l’investimento in azioni, sia italiane che estere, con un apporto complessivo di nuove risorse pari rispettivamente a 95 e 75 miliardi.

La fotografia delle partecipazioni azionarie detenute dalle aziende italiane a settembre dello scorso anno mostra con chiarezza gli effetti di questo lungo processo di internazionalizzazione: le azioni e partecipazioni assorbono oltre il 50% del totale delle attività finanziarie detenute dalle imprese. Il valore delle partecipazioni estere ha superato i 340 miliardi di euro, mentre quelle italiane si fermano sotto i 310. In quasi venticinque anni, le imprese hanno investito circa 280 miliardi di euro nel capitale di società straniere, destinando nello stesso periodo poco più di 200 miliardi all’investimento nel capitale di altre aziende italiane. Si tratta, dunque, di un profondo cambiamento, che merita di essere approfondito, per capirne le motivazioni sottostanti.

Un’internazionalizzazione guidata dalla ricerca di nuovi mercati

I numeri sulle aziende multinazionali mostrano con chiarezza come, dallo scoppio della crisi, il processo di internazionalizzazione del sistema produttivo italiano abbia subito un’accelerazione. Nel 2008, le imprese estere a controllo italiano erano poco meno di 21mila, impiegavano quasi 1,5 milioni di addetti, producendo 386 miliardi di fatturato. Dopo dieci anni, grazie anche ad operazioni societarie di particolare rilevanza, le imprese estere a controllo italiano sono poco più di 23,7mila, occupano quasi 1,8 milioni di addetti e producono 538 miliardi di fatturato. Oggi, la presenza all’estero appare concentrata nei servizi non finanziari, con più di 13.500 imprese, circa il 60% del totale.

Di queste, più della metà, quasi 7.400, operano nel comparto del commercio. Sono, invece, 6.500 le aziende manifatturiere, con un peso rilevante del comparto dei macchinari, di quello dei prodotti in metallo e dell’alimentare, mentre quelle delle costruzioni superano le 1.100.

Questo profondo processo di internazionalizzazione ha modificato all’interno del sistema imprenditoriale italiano i rapporti tra la componente nazionale e quella estera. Oggi le imprese estere a controllo nazionale dell’industria e dei servizi non finanziari occupano un numero di addetti pari al 10% di quelli impiegati nelle aziende residenti in Italia. Il peso del fatturato si è avvicinato al 15%.