Scarica gratis

Il procedimento denominato Project Mirror Intelligence – elaborato dal gruppo Tusci@network – ha l’obiettivo di fornire al navigatore una selezione ragionata di informazioni di natura economico–statistica in grado di riflettere la situazione contingente del “Sistema–Italia”.

L’Instant Book “Start PMI” ha cadenza mensile.
I dati contenuti in questo numero sono aggiornati al 28/2/2018.

Autori:

– Riccardo Cerulli

– Francesco Cacchiarelli

INDICE

1. Startup Survey 2016 – ISTAT – 27 febbraio 2018

2. Congiuntura Confcommercio febbraio 2018 – Ufficio Studi Confcommercio – 16 febbraio 2018

3. Fatturato dei servizi IV trimestre 2017 – ISTAT – 28 febbraio 2018

4. Mosaico Europa – Unioncamere – 23 febbraio 2018

5. Commercio con l’estero e prezzi all’import dei prodotti industriali Dicembre 2017 – ISTAT – 15 febbraio 2018

6. Credito al consumo, una crescita a più velocità – Servizio Studi BNL – 16 febbraio 2018

7. Piano triennale di prevenzione della corruzione 2018/2018 – Ministero dello Sviluppo Economico – 7 febbraio 2018

Estratto:

1. Startup Survey 2016 – ISTAT – 27 febbraio 2018

STARTUP SURVEY 2016: UN’INTRODUZIONE

L’obiettivo di questo rapporto di ricerca è esporre le evidenze emerse dalla prima indagine a carattere censuario sulle startup innovative italiane, condotta nel 2016 dal Ministero dello sviluppo economico (Mise) e dall’Istituto nazionale di statistica (Istat) e nota come Startup Survey. Ideata come contenuti tematici nell’ambito del Comitato tecnico di monitoraggio e valutazione previsto dalla disciplina nazionale sulle startup innovative – lo Startup Act italiano introdotto con il decretolegge 179/2012 – la rilevazione si propone di indagare molteplici aspetti di natura socioeconomica tipici del fenomeno della nuova imprenditoria innovativa italiana; mira altresì a raccogliere dalla viva voce degli stessi imprenditori opinioni e suggerimenti sulle varie misure che compongono lo Startup Act italiano, con il fine ultimo di istruire futuri interventi normativi.
L’indagine nasce dall’esigenza di arricchire il bagaglio informativo derivante dal sistema periodico di monitoraggio curato del Mise sin dall’avvio della policy nel 2012. Una risorsa fondamentale in tal senso è rappresentata dal portale startup.registroimprese.it, che consente a chiunque lo desideri – per fini informativi, commerciali o di ricerca – di scaricare gratuitamente un database, disponibile in formato rielaborabile e aggiornato settimanalmente, recante una vasta gamma di dati su ciascuna delle imprese destinatarie dello Startup Act italiano. Inoltre il Mise cura quattro rapporti trimestrali di monitoraggio riguardanti i trend demografici e la performance economico-finanziaria delle startup, e i risultati di alcune delle principali misure ad esse dedicate: la nuova modalità di costituzione digitale, l’intervento agevolato del Fondo di garanzia e il programma Italia Startup Visa per l’attrazione di talenti innovativi dal mondo. Tutto questo è completato da una relazione annuale di monitoraggio, presentata dal Ministro al Parlamento, più estesa sia per vastità che per profondità d’analisi.
Nonostante offrano un ampio patrimonio informativo, queste risorse attingono unicamente da fonti di tipo amministrativo e hanno natura prettamente quantitativa, limitando la possibilità di compiere un’analisi più eterogenea – comprensiva, ad esempio, di elementi di natura sociologica. Startup Survey si propone di allargare il campo analitico, investigando aspetti a carattere prevalentemente qualitativo che spaziano dal background familiare, educativo e professionale degli startupper alle loro motivazioni imprenditoriali, fino alle strategie seguite per acquisire capitali e conoscenza. Il questionario si compone prevalentemente di quesiti a risposta multipla; in pochi casi l’intervistato è chiamato a inserire valori economici puntuali, e in uno solo gli viene posta una domanda a risposta aperta. L’indagine si articola in quattro sezioni riguardanti: i) le caratteristiche del capitale umano delle startup, ii) l’accesso alla finanza, iii) le strategie di innovazione e iv) il livello di conoscenza e di soddisfazione rispetto allo Startup Act. Il primo capitolo di questo rapporto illustra la metodologia adottata da Istat nella somministrazione dell’indagine e nella raccolta dei dati, mentre i capitoli da 2 a 5 corrispondono ciascuno a una sezione della rilevazione. Come illustrato nel Capitolo 1, la popolazione target è stata individuata secondo un criterio censuario, considerando cioè tutte le 5.150 imprese iscritte alla sezione speciale del Registro delle imprese dedicata alle startup innovative al 31 dicembre 2015. Il questionario è stato loro somministrato con la tecnica di acquisizione CAWI (Computer Assisted Web Interviewing), con un meccanismo soft di verifica della coerenza delle risposte. La raccolta dati è durata circa due mesi e ha visto la partecipazione di ben 2.250 startup innovative, facendo registrare un tasso di risposta del 43,7 per cento. Questo risultato appare molto positivo, considerando il carattere volontario della partecipazione all’indagine e la complessità del questionario.
Poiché il sottoinsieme dei rispondenti presenta una struttura settoriale, territoriale e per anno di costituzione molto simile a quella dell’intera popolazione target, esso può essere ritenuto pienamente rappresentativo.
Le risposte fornite sono presentate sotto forma di distribuzioni percentuali rispetto al totale degli intervistati che per ciascun quesito hanno fornito una risposta valida – in tutte le sezioni la quasi totalità dei rispondenti.
Il Capitolo 2 presenta le principali risultanze emerse dalla sezione della rilevazione riguardante il background familiare, lavorativo e di istruzione dei soci e dei dipendenti delle startup. Inoltre, vengono approfondite le motivazioni che hanno spinto i fondatori delle startup ad intraprendere l’attività imprenditoriale. Infine, questa sezione cerca di portare alla luce eventuali dinamiche di mobilità sociale e territoriale e a rilevare l’impatto percepito dall’imprenditore sul proprio reddito per effetto dell’avvio della startup.
I 4.363 soci operativi delle imprese rispondenti sono di genere maschile nell’82 per cento dei casi e presentano un’età media di 43 anni. Hanno conseguito un titolo di studio pari o superiore alla laurea triennale nel 72,8 per cento dei casi, per lo più in materie tecnico-ingegneristiche ed economicomanageriali, con una concentrazione molto più alta di soci con master e dottorato tra le startup che presentano il codice Ateco Ricerca e Sviluppo (R&S). È interessante notare come la maggior parte dei soci laureati (88 per cento) dichiari di svolgere mansioni coerenti con il proprio percorso di studi e come il 50 per cento di coloro che hanno avuto esperienze professionali prima di fondare una startup (87,1 per cento dei soci) svolga nella stessa delle attività in linea con i precedenti impieghi.
La quasi totalità dei soci (96 per cento) dichiara altresì di conoscere almeno un’altra lingua oltre l’italiano (l’inglese nella maggior parte dei casi, seguito dal francese e dallo spagnolo), mentre la metà ha fatto esperienze di studio o lavoro in altri Paesi. Il radicamento territoriale dei soci appare molto elevato: per l’83 per cento la regione sede della startup è la medesima nella quale sono state condotte le principali esperienze formative o lavorative. I contesti familiari di provenienza si caratterizzano per una forte eterogeneità: meno della metà (40,5 per cento) dei rispondenti dichiara di avere un padre imprenditore o lavoratore autonomo, percentuale che scende al 16 per cento se si considera la madre.
Dal punto di vista motivazionale, la ragione soggiacente all’avvio dell’impresa che ricorre con maggiore frequenza è la realizzazione di prodotti o servizi innovativi, seguita dall’ambizione di avviare un’impresa di successo e redditizia. Infine, la metà dei soci dichiara che l’avvio della startup non ha ancora prodotto effetti significativi sul proprio reddito. Spostando la lente sui dipendenti delle startup innovative, emerge come il 59,4 per cento delle imprese intervistate ne impieghi almeno uno, per un totale di 5.704. Circa la metà di essi è di età compresa tra i 25 e i 34 anni, e circa tre su quattro sono uomini. Da notare che quasi 1.500 dipendenti sono soggetti a forme contrattuali atipiche, per lo più contratti a progetto, e che l’incidenza dei dipendenti donna è decisamente più bassa tra i dirigenti che tra gli impiegati e i tirocinanti. Il titolo di studio più diffuso è il diploma di scuola superiore e l’area professionale quella tecnologico-ingegneristica. Come per i soci, il radicamento territoriale risulta molto pronunciato, mentre la coerenza tra mansioni ricoperte e ambito di studio aumenta con l’aumentare del livello di istruzione.
Analizzando le variazioni territoriali e settoriali a seconda del genere e dell’età emerge che vi sono in proporzione più soci donna nelle startup del Centro e del Mezzogiorno e in quelle operanti nel settore R&S (soprattutto per le classi di età 25-34 e 35-44 anni) e Consulenza gestionale, mentre la prevalenza maschile è più forte nei settori Software (particolarmente per la classe di età 45-64 anni) e Macchinari. Quest’ultimo, insieme alle Altre attività di consulenza, tende a presentare soci più maturi (over 45), mentre gli under 35 sono relativamente più concentrati nei settori dell’Elaborazione dati e del Design. Il rapporto presenta un approfondimento circa le caratteristiche socio-economiche dei soci effettuato mediante una cluster analysis, giungendo a profilare cinque raggruppamenti sulla base di variabili sociodemografiche quali genere, età, titolo di studio, conoscenza di almeno una lingua straniera ed esperienza all’estero.
Il Capitolo 3 analizza il tema dell’accesso alla finanza da molteplici punti di vista: composizione delle compagini sociali alla fondazione e al momento della rilevazione, in modo da descriverne le variazioni nel corso del tempo; fonti di finanziamento, anche esse descritte secondo una prospettiva dinamica; livello di soddisfazione rispetto alle esigenze di approvvigionamento finanziario delle startup. Per quanto concerne la composizione delle compagini sociali delle startup rispondenti, rileva che, anche alla luce della loro recente costituzione, tre quarti di esse non hanno ancora registrato flussi in entrata o in uscita, e che quindi i soci al momento della rilevazione sono gli stessi fondatori dell’impresa: nel 43 per cento dei casi si tratta di due soci, nel 35,8 per cento di 3 o 4. Il turnover dei soci si intensifica, come intuibile, man mano che l’impresa diventa più matura. Con riguardo alle fonti di finanziamento delle startup, risulta che al momento della fondazione il 73,2 per cento delle imprese ha fatto principalmente ricorso alle risorse proprie dei soci fondatori e che tale fonte è utilizzata da circa la metà delle startup anche al momento della rilevazione, benché in misura decrescente.
Solo il 10 per cento delle startup rispondenti non vi fa affatto ricorso. Le donazioni di family and friends sembrano avere un ruolo marginale tanto alla costituzione quanto dopo di essa, intuibilmente perché tali attori tendono a proporsi più come soci che come meri finanziatori. Una quota minoritaria delle imprese è stata avviata mediante finanziamenti pubblici (nel 3 per cento dei casi di origine nazionale, nel 7,7 per cento di fonte regionale o locale), soprattutto nelle regioni meridionali, ma il ricorso alle risorse pubbliche diventa più significativo per le imprese più mature, soprattutto se impegnate in attività di R&S. Solo l’8,2 per cento delle startup innovative ha ricevuto in fase di costituzione finanziamenti in equity da società di venture capital, business angel o altre imprese, percentuale che sale leggermente al momento della rilevazione (11,2 per cento). È interessante notare come un gruppo di startup pari al 7,2 per cento del totale operi con risorse provenienti in maggioranza da investitori esterni: si tratta in gran parte di imprese con fatturato alto e già presenti da qualche anno sul mercato, a conferma della preferenza dei fondi di venture capital per questa tipologia di startup.
Infine, la quasi totalità delle imprese non ha richiesto credito bancario all’avvio, ma l’accesso a tale strumento di finanziamento aumenta visibilmente con la maturazione dell’impresa in termini anagrafici, di forza lavoro impiegata e, ancora di più, di fatturato (49,7 per cento delle startup con produzione superiore a 500mila euro ha ricevuto prestiti bancari, contro il 21 per cento di quelle che si attestano sotto i 100mila euro).
Buona parte degli startupper si dichiara pienamente soddisfatto delle fonti di finanziamento a propria disposizione (34,1 per cento), percentuale più elevata nelle regioni del Nord (38,4 per cento) e tra le imprese con fatturato più cospicuo (56 per cento).
Per contro, il 21,7 per cento degli imprenditori ritiene che la disponibilità finanziaria della propria startup sia del tutto insufficiente a coprire il fabbisogno. Il questionario rileva altresì preferenze e approccio degli startupper alle fonti di finanziamento, con l’obiettivo di mettere alla prova la tesi, ricorrente nel dibattito mediatico e nella letteratura scientifica, della dicotomia tra finanziamento a debito e in equity. La rilevazione sembra in realtà smentire la presunta contrapposizione nelle preferenze verso l’una e l’altra tipologia: ben il 65,7 per cento delle imprese rispondenti, infatti, dichiara che il finanziamento ottimale di cui necessitano è un mix tra equity e debito; solo un quarto vorrebbe finanziarsi esclusivamente tramite equity e meno del 10 per cento solo a debito. Tra quest’ultime prevalgono le startup con valori della produzione alti. Le tipologie di investitori preferite sono i fondi di venture capital (42,9 per cento) e le aziende (42,8 per cento), mentre solo un sesto delle startup rispondenti raccoglierebbe finanziamenti tramite l’equity crowdfunding, per lo più imprese con valori della produzione contenuti e costituitesi dopo l’entrata in vigore del regolamento Consob in materia (2013).
È interessante notare come, paradossalmente, a fronte di un interesse generale dichiarato verso il finanziamento in equity, la maggior parte delle startup (68,4 per cento), dopo la fondazione, non abbia cercato nuovi finanziamenti da fondi di venture capital, business angel o tramite l’equity crowdfunding, quasi a suggerire che questa soluzione sia più auspicata che effettivamente perseguita. Rileva altresì come la ricerca di tale tipologia di finanziamento sia decisamente più diffusa (53,8 per cento delle imprese) tra le startup che hanno beneficiato dei servizi degli incubatori certificati di startup innovative, definiti ai sensi del decreto-legge 179/2012 come quelle società che presentano uno storico consolidato nei servizi di sviluppo aziendale. Quasi la metà delle imprese che non cercano attivamente capitale di rischio (43,9 per cento) ritengono di avere risorse finanziarie sufficienti, mentre il 14,9 per cento non ritiene il proprio business adatto a ricevere tale tipologia di finanziamento.
Quasi un sesto degli startupper, inoltre, dichiara di non avere interesse o fiducia nel mercato del venture capital e un altro sesto, soprattutto in imprese più mature, è restio ad aprire la compagine sociale a nuovi soci, temendo una riduzione dell’autonomia decisionale. Infine, una quota non trascurabile di startup (12 per cento) ha rifiutato delle offerte di investimento: nel 24,8 per cento dei casi perché la valutazione delle quote era ritenuta troppo bassa, nel 21,9 per cento a causa clausole contrattuali ritenute penalizzanti per i soci già presenti, nei restanti casi perché la quota richiesta di partecipazione nell’azienda (17,8 per cento) o il ruolo gestionale richiesto (12,8 per cento) sono stati ritenuti eccessivi.
Per quanto riguarda il rapporto delle startup con gli altri attori dell’ecosistema dell’innovazione, in particolare incubatori certificati, università e imprese mature, risulta che la gran parte delle imprese (72,6 per cento) non è stata mai localizzata presso un incubatore certificato, che il 21,6 per cento delle imprese lo è al momento della rilevazione e che la restante parte lo è stata in passato. L’incidenza di quella platea di incubatori che la normativa nazionale identifica come eccellenti, e che storicamente si attesta sulle 30 unità, riguarda dunque una startup innovativa italiana su quattro. Come intuibile, la percentuale di imprese incubate diminuisce al crescere della classe di produzione.
Circa la metà delle imprese (45,6 per cento), soprattutto quelle caratterizzate da innovazioni di prodotto e spesa in R&S oltre il 40 per cento del fatturato, presenta rapporti di collaborazione con altri attori economici diversi dagli incubatori, per lo più in ambito tecnologico con università e centri di ricerca (47,8 per cento, contro un 26,9 per cento di accordi in ambito commerciale).
Rileva, in aggiunta, come, contrariamente a quanto si potrebbe desumere dai valori della produzione – nulli o ridotti per un gran numero di startup – esse dichiarino di aver iniziato a vendere i propri prodotti o servizi in tempi rapidi, spesso sin dalla costituzione (38 per cento) e comunque entro uno (80 per cento) o due anni (94,5 per cento) dalla stessa.
Il Capitolo 4 indaga le strategie di innovazione adottate dalle startup, con riguardo sia alla tipologia dell’innovazione introdotta, che alle fonti delle conoscenza che l’hanno originata e alle misure adottate per proteggerla.
Gran parte delle imprese (il 74 per cento) ha realizzato innovazioni di prodotto o servizio, mentre le innovazioni di processo, realizzate dal 37,1 per cento delle startup, sono più diffuse tra le classi di fatturato più alte. Nella maggioranza dei casi (65 per cento) si tratta di forme di innovazione incrementale, ossia migliorativa di un prodotto o di un processo già esistente; il 48,5 per cento delle startup dichiara invece di aver introdotto prodotti del tutto nuovi.
La conoscenza tecnica o scientifica che ha reso possibile l’introduzione dell’innovazione dichiarata deriva per più della metà delle startup (61,9 per cento) da precedenti esperienze professionali nello stesso settore; solo nel 20 per cento dei casi la ricerca universitaria rappresenta la fonte diretta. Dall’indagine risulta che gran parte delle startup (79 per cento) sostiene costi in R&S. A tale tipologia di spese viene dedicata una parte significativa budget aziendale: in media il 47 per cento dei costi totali annui, percentuale di molto superiore alla soglia minima del 15 per cento che, insieme alla presenza di personale altamente qualificato e alla titolarità di strumenti di tutela della proprietà intellettuale, rappresenta uno degli indicatori di innovatività richiesti dalla definizione normativa di startup innovativa.
La marcata propensione all’investimento, soprattutto in asset intangibili, risulta suffragata dal tasso di immobilizzazioni sull’attivo patrimoniale, che, come si può evincere dal rapporto trimestrale di monitoraggio realizzato dal Mise e dal sistema camerale, supera il 30 per cento alla data di riferimento della rilevazione (31 dicembre 2015) – valore quasi 10 volte superiore alla media allora registrata dal complesso delle società di capitali italiane. In particolare, le startup che presentano una maggiore incidenza di costi in R&S sono quelle con fatturato inferiore a 100mila euro. Infine, la maggior parte delle startup innovative (82,6 per cento) ha investito in R&S intra-muros, mentre il 54,1 per cento ha esternalizzato in via parziale o esclusiva tale attività, perlopiù affidandosi ad altre imprese o, in misura nettamente minore, a università e centri di ricerca.
I mercati di riferimento dei prodotti e servizi delle startup sono in gran parte le altre imprese italiane (71,8 per cento dei casi), cui seguono, in ordine decrescente, i consumatori diretti italiani (49,5 per cento), le imprese estere (41,5 per cento), i consumatori di altri Paesi (31,2 per cento) e, a una certa distanza, la pubblica amministrazione italiana (28 per cento) e di altri Paesi (11,1 per cento). Per quanto riguarda le strategie di protezione dell’innovazione, rileva che il 17,8 per cento delle startup sia titolare di una privativa industriale, il 12,8 per cento depositario e il 9,2 per cento licenziatario. Per contro, dalla rilevazione emerge anche come più della metà delle imprese (58 per cento) non adotti alcun meccanismo formale di tutela della proprietà intellettuale (per esempio, brevettazione) e come circa un quarto non persegua nemmeno strategie informali di protezione. Tra queste ultime, la più diffusa è il segreto industriale (46,8 per cento dei casi), seguito dalle strategie di lead time (21,2 per cento).
Le imprese che non hanno adottato meccanismi informali di tutela motivano la propria scelta per lo più (47,9 per cento) con la convinzione che l’innovazione apportata dalla propria impresa non possa essere appropriata da terzi; un quarto dichiara invece di non avere innovazioni suscettibili di tutela e un altro quarto non conosce strategie utili allo scopo.
Il Capitolo 5 dà conto della quarta e ultima sezione della rilevazione, che riguarda il rapporto dei fondatori di startup innovative con la policy nazionale loro dedicata. I quesiti sono volti a indagare, in primo luogo, se gli imprenditori sono effettivamente a conoscenza delle varie agevolazioni disponibili (la rilevazione ne menziona ben 20 diverse), e delle modalità di fruizione delle stesse. Inoltre, il rispondente ha potuto indicare se ha già avuto accesso alle misure in esame, o se è interessato a farne uso in futuro.
Dalle risposte emerge come le misure più conosciute siano la riduzione dei costi per l’avvio d’impresa – ossia l’esonero da diritti camerali e imposte di bollo applicato di default alle startup innovative al momento dell’iscrizione al Registro delle imprese – e l’accesso semplificato e gratuito al Fondo di Garanzia per le Pmi, noto a quasi 9 startup su 10 – anche se quasi 1 su 5 dichiara di non conoscere le modalità per accedervi. Altre misure che riscuotono particolare successo tra gli startupper sono il credito d’imposta per attività di ricerca e sviluppo (CIR&S), gli incentivi fiscali per gli investimenti in capitale di rischio, e la maggiore flessibilità prevista per le assunzioni a tempo determinato. Una misura per cui invece molti imprenditori dichiarano scarso interesse o una conoscenza solo superficiale è la possibilità di avviare campagne di equity crowdfunding.
Sempre sotto il profilo della conoscenza, ai partecipanti all’indagine è stato richiesto quali siano state le fonti attraverso le quali hanno ottenuto informazioni sulla policy – l’accesso alla quale, si rammenta, ha carattere volontario. Oltre due terzi dei rispondenti (67,4 per cento) dichiarano di aver ricevuto informazioni sulle misure dal proprio commercialista di riferimento. Seguono a grande distanza i media online (41,8 per cento) e le Camere di commercio (25 per cento). All’opposto, due canali che non riescono ancora a esprimere appieno il proprio potenziale comunicativo sono le associazioni di categoria – che svolgono un ruolo significativo solo per le startup più mature – e le università. Considerando ciò, non stupisce come siano proprio i fondatori delle startup più researchintensive a mostrare il più basso tasso di conoscenza delle misure agevolative, specialmente quelle a carattere fiscale e lavoristico.
In secondo luogo, questa sezione della rilevazione propone una misurazione del livello di soddisfazione dei beneficiari rispetto alla policy. Alle startup che hanno dichiarato di utilizzare le misure proposte è stato richiesto di esprimere una valutazione, su una scala da 0 a 5, dell’impatto che esse hanno avuto sull’attività di impresa. Le misure che raccolgono i giudizi più positivi sono, ancora una volta, il Fondo di garanzia per le Pmi (valutazione media 4,33) e il CIR&S (4,02), nonché gli incentivi per gli investimenti in equity.
La rilevazione si conclude con una domanda a risposta aperta: “Come a tuo avviso il legislatore potrebbe potenziare il quadro normativo in cui operano le startup innovative? Su quali aspetti della vita d’impresa dovrebbe intervenire?”. Il quesito intende favorire un processo partecipativo tra amministrazione e cittadini, acquisendo suggerimenti d’azione dalla viva voce dei soggetti stessi della politica. Al contempo, esso vuole anche rappresentare un’occasione per gli imprenditori per prendere pienamente coscienza dell’estensione – e dei limiti – del contesto agevolativo offerto, e di quali siano gli effettivi ostacoli alla sua piena fruizione. Le circa mille imprese che hanno compilato questo campo (44,2 per cento dei rispondenti) hanno presentato suggerimenti molto eterogenei, sia per esaustività che per ambito di pertinenza. La gran parte di essi può comunque essere ricondotto a poche categorie principali: le più rappresentate riguardano l’accesso al credito bancario (21,4 per cento dei rispondenti), imposte e incentivi fiscali (24,8 per cento), e proposte in merito all’alleggerimento di adempimenti e altri oneri burocratici (27,9 per cento).
Mentre molte risposte hanno carattere generico o di dichiarazione di intenti, sono numerose le imprese che hanno fornito resoconti dettagliati della propria esperienza pratica o presentato proposte strutturate. Tra le più comuni, l’introduzione di esenzioni temporanee da imposte e contributi previdenziali nei primi anni di attività, e la richiesta di attivare forme di finanziamento a fondo perduto o comunque di limitare il ricorso a bandi cd. “cash-negative” – ossia quelli in cui l’erogazione del finanziamento arriva sotto forma di rimborso di spese già sostenute, la cui logica dunque presume che le imprese detengano già una qualche disponibilità finanziaria per anticipare i costi d’investimento.