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Il procedimento denominato Project Mirror Intelligence – elaborato dal gruppo Tusci@network – ha l’obiettivo di fornire al navigatore una selezione ragionata di informazioni di natura economico–statistica in grado di riflettere la situazione contingente del “Sistema–Italia”.

L’Instant Book “Start PMI” ha cadenza mensile.
I dati contenuti in questo numero sono aggiornati al 30/6/2018.

Autori:

– Riccardo Cerulli

– Francesco Cacchiarelli

INDICE

1. Io Sono Cultura 2018 (estratto) – Fondazione Symbola – giugno 2018

2. Rapporto Annuale 2018 (estratto) – ISTAT – 16 maggio 2018

3. Fiducia dei consumatori e delle imprese – ISTAT – 27 giugno 2018

4. Fatturato e ordinativi dell’industria – ISTAT – 27 giugno 2018

5. Risultati economici delle imprese a livello territoriale: ampliamento del dettaglio di analisi 2015 – ISTAT – 13 giugno 2018

6. Produzione industriale – ISTAT – 11 giugno 2018

7. Monthly Outlook – ABI – giugno 2018

Estratto:

1. Io Sono Cultura 2018 (estratto) – Fondazione Symbola – giugno 2018
Il mondo dubita e si interroga per disegnare nuove strade
Anno di passaggio, il 2018 sta trasformando le fibrillazioni rabbiose, che forse segnano gli ultimi rantoli di un sistema affaticato e incerto, in tentativi ricostruttivi di un eco-sistema culturale, sociale ed economico nel quale la creatività si rivela cruciale per non replicare i moltissimi errori del passato e per indicare strade non battute. Può funzionare, come il resto del mondo sembra rivelare, a patto di deporre le gerarchie, lasciare le convenzioni, evitare le paure e accettare il fatto che le intuizioni creative richiedono morbidezza, flessibilità, e mancanza di pregiudizi.
Riti di passaggio. L’estate del 2017 ha interrotto il breve ciclo che sembrava aver costruito una realtà solida. Binaria e conflittuale, la mappa degli umori è stata segnata dal contrapporsi di certezze generate dalla mescolanza di urgenze e ideologie, immaginando che la povertà si possa sconfiggere arroccandosi dentro i confini. Ne usciamo con alcune sorprese, tra tutte l’apertura di un dialogo tra la Nord Corea e il resto del mondo. Dichiarazioni roboanti e sommesse marce indietro, in alcuni casi dilazioni indefinite: il processo della Brexit è tuttora in discussione e non si vede alcuna precisa direzione se non una scadenza. Ne ha messo a fuoco le contraddizioni e i rischi di medio periodo la Creative Industries Federation che ha fatto luce sui costi che l’uscita genererà sul comparto creativo e sulla cascata di connessioni che rivitalizzano l’intera economia.
È tempo di riflessioni.
Troppo rumore, in effetti, può istigare verso le pause. Capita, quasi inaspettatamente, alla ‘Generazione Z’, adolescenti e ventenni (‘teens and tweens’ nel gergo anglofono) che a furia di navigare senza sosta si stanno rendendo conto di replicare gli stessi scenari e di ricavarne ondate di noia; “… magari non si manifesta come capitava ai nostri genitori quando erano ragazzi, ma in effetti capita anche a noi: online, siamo costantemente connessi ma ci annoiamo. Metto giù il telefono, e passo alla lettura”. E’ una quindicenne di Long Island a parlare, come confermano molti suoi coetanei in giro per gli Stati Uniti3. Questo fenomeno che caratterizza la ‘me me me generation’ si dovrebbe leggere in un’ottica storica più che escatologica: da sempre gli adolescenti ritengono che i loro genitori siano reazionari, e la tecnologia potrebbe fornire più estese opportunità di riscatto, anche alla luce del fatto che spesso la noia è considerata una fonte di creatività. In Italia, tuttavia, la mobilità sociale appare piuttosto bloccata, come ritiene – a buon diritto – l’87% dei giovani intervistati per il Rapporto CENSIS 2017.
Laboratori urbani. La città si pone nuove domande, in un quadro nel quale appare necessario e indifferibile combinare il cosmopolitismo con il desiderio di prossimità. La partecipazione diffusa può dare forma agli spazi urbani, come sta dimostrando Piazza Scanderbeg a Tirana: costruita in tempi di monarchia, allargata dal regime fascista nel 1920, ridisegnata dalla dittatura comunista non allineata nel dopoguerra, è sempre stata una piazza celebrativa del potere albanese, qualunque esso fosse. Resa amorfa e priva di vita (si tratta di quarantamila metri quadrati) dall’eccesso di delusione, è in corso di trasformazione in base al piano di rinnovo urbano dello studio belga 51N4E voluto dal sindaco Edi Rama, con un progetto di Stefano Boeri insieme a UNLAB e IND che traguarda la gigantesca piazza con aree verdi che fanno da cerniera rispetto ai complessi pubblici e privati che la circondano, e la rideclina con pietre locali dalle infinite sfumature cromatiche. Questo spazio enorme sarà percorso da flussi e veli d’acqua che i passanti dovranno superare disegnando percorsi imprevedibili e cangianti. Così la forma della piazza è costruita in tempo reale dalla comunità che la attraversa.
Al capo opposto dello spettro si colloca una megalopoli come Pechino, storicamente una città di biciclette che ha considerato il possesso e l’uso delle automobili fonte e – al tempo stesso – sintomo di crescita economica. Anche in considerazione degli enormi afflussi demografici dalle aree rurali, l’amministrazione ha presto capito che si era trattato di un colossale errore. Analogamente Guangzhou ha convertito le piste ciclabili in strade carrozzabili, e Dalian si è dichiarata ‘città senza biciclette’. Da poco più di un anno Pechino ha invertito la tendenza, intensificando la costruzione di nuove linee della metropolitana e reintroducendo la bicicletta come mezzo di trasporto preferenziale. Secondo l’Earth Policy Institute la Cina vanta oggi il più esteso programma di bike-sharing con oltre 170 programmi in tutto il Paese, e Hangzhou offre 78000 biciclette con giganteschi parcheggi accanto a stazioni ferroviarie e di autobus, risolvendo così il problema dell’ultimo miglio.
Il ritorno dell’arte. Uno snodo cruciale è l’istruzione con i suoi processi, che l’orientamento ‘professionalizzante’ ha finito per irrigidire sostituendo un amorfo conforto alle opportunità creative. Le reazioni cominciano a farsi sentire: La Harvard Business Review fornisce l’elenco dei manager più importanti dell’economia digitale: Stewart Butterfield, Slack (filosofo), Jack Ma, Alibaba (letteratura inglese), Susan Wojcicki, YouTube (storica), Brian Chesky, Airbnb (storico dell’arte). Scott Hartley affronta la questione nel libro The Fuzzy and the Techie in cui smentisce la “falsa dicotomia tra le discipline umanistiche e la scienza digitale”, argomento affrontato anche da Morson e Schapiro in Cents and Sensibility (che gioca in modo eloquente sul titolo di un capolavoro di Jane Austen) connettendo le urgenze dell’economia con la cassetta degli attrezzi degli umanisti. Servono esperti tecnici, ovviamente, ma al tempo stesso risultano indispensabili persone che sappiano “afferrare i perché e i come del comportamento umano”, affrontando problemi su larga scala per i quali l’ampiezza del bagaglio formativo potrebbe prevalere sulla sua profondità. Tra gli orientamenti virtuosi emerge una nuova piattaforma virtuale, Heni Talks, costruita dall’ex direttore della Tate Nicholas Serota insieme ad Anish Kapoor e Cornelia Parker per offrire istruzione in campo artistico e controbilanciare, con dei video in stile TED, l’indebolimento sistematico dell’insegnamento delle discipline artistiche nelle scuole superiori. Munira Mirza, direttrice del progetto, osserva che “l’audience online della storia dell’arte è massiccia e lì fuori c’è fame per grandi contenuti.
Circa metà degli adulti guarda video educativi online, e molto spesso li scopre attraverso i social media”. E a San Francisco, nel Palace of Fine Arts, una fiera d’arte combina arte e tecnologia facilitando valutazioni e scambi oltre la cortina delle convenzioni del solito club di iniziati: concepita da Sho-Joung Kim-Wechsler (la fondatrice di Artsy), “If So, What?” (bella etichetta interrogativa) ha sostituito, nella seconda metà di aprile 2018, il modello fieristico assertivo e gerarchico con un’esperienza esplorativa cui ha contribuito una estesa sinergia tra artisti, espositori e imprese locali (ifsowhat.com).
Musica, festival, talenti migranti. Anche i generi musicali soffrono una struttura che li rende gabbie costrittive. Il compositore Tony Haynes sottolinea come questo finisca per drenare un pubblico in cerca di creazioni ibride e sincretiche: partecipando ai festival “Undream’d Shores” (Hackney Empire, Londra) e “Music Untamed” (Fairfield Halls, Croydon) si accorge che quasi tutti i musicisti sono migranti di prima o seconda generazione, che tra gli otto band leaders lui è l’unico nato in Gran Bretagna; si tratta, soprattutto, di musicisti con competenze, esperienze e attitudini da condividere “offrendo una finestra sulla storia, altre culture che possono arricchire le nostre vite e le arti … un ruolo cruciale nel porre la questione della diversità creativa come priorità per l’Arts Council of England”. Nel frattempo il rapper Kendrick Lamar vince il Premio Pulitzer e contribuisce a sfondare – finalmente – la tradizionale gerarchia tra high e low culture.
In campo culturale il festival risulta sempre di più la scatola per propria natura flessibile, ecumenica, indefinita e versatile, nella quale fabbricare nuovi linguaggi espressivi senza dimenticare la valenza politica, commerciale e sociale dell’arte. Facilmente scalabile, il festival può rappresentare un investimento sicuro, soprattutto in tempi di riconquista degli spazi urbani. Ne sono buona prova Coachella, Lollapalooza, Tomorrowland (che quest’anno avrà anche un’edizione italiana), così come da noi RomaEuropa che combina poca e forte creatività italiana con numerosi fermenti e talenti gestati e costruiti in altri eco-sistemi culturali. Manifesta, nel frattempo, si affaccia a Palermo, che vive l’anno da capitale culturale italiana ma diventa il tessuto infrastrutturale e sociale per uno dei più importanti eventi di arte contemporanea.
La forza del racconto. Continuano, ovviamente, le serie TV, nell’anno in cui Sky e Fox si fondono con Disney. Ma si ostinano a ri-creare approcci narrativi sempre più attenti a combinare forma e sostanza. Mentre si aspetta la terza serie di “The Crown” e riparte “Westworld”, irrompe l’episodio finale di “Sense8”, paradossalmente confezionato come un film (con un unico episodio di due ore girato, non a caso, a Napoli) e sbanca “La casa de Papel”, una serie spagnola che dentro una storia d’azione e negoziato tra banditi e poliziotti, carica di colpi di scena, cliffhangers e ironia à la Almodovar, finisce per offrire una visione critica del sistema economico e politico e adotta “Bella Ciao” come manifesto quasi ideologico. Così un prodotto creativo nato dalla standardizzazione del format ha finito per declinarlo modificandone di continuo l’andamento: per la prima volta i millennials si appassionano alla televisione, magari guardandosela sullo smartphone.
Proprio nel sistema creativo della ‘decima Musa’ è esplosa la questione della gender equality in tutta la sua durezza. Il caso Weinstein e l’inevitabile cascata che ne è seguita ha comunque vanificato la calcificazione di luoghi comuni del tutto impropri che si riflette su contratti, remunerazioni, garanzie e affidabilità. Basta con gli stereotipi: sul catwalk la taglia 36 non è più ammessa, colossi come Asos abbandonano Photoshop, e la forgia artigiana digitale partorisce Shudu, un’opera d’arte che sfida l’alta moda: è una supermodel, di fatto, per quanto virtuale, ‘fabbricata’ dal fotografo ventottenne Cameron-James Wilson e catapultata su Instagram dal designer Semhal Nasreddin della casa di moda Soul Sky. Non è la prima ma certamente è la più controversa, dopo il rigetto di non pochi epigoni della black culture che si sono sentiti usati (“We don’t want to be a trend”). La parità di genere e di cultura non si conquista costruendo scatole (ne sono un esempio le cosiddette ‘quote rosa’). Dimostrato che nella prospettiva scientifica le razze non esistono, rimane eclatante la questione delle ‘black lives’, senza dimenticare il familismo costrittivo di alcune culture asiatiche. Ma le donne di Teheran sfidano le convenzioni semplicemente salendo senza hijab su una colonnina in mezzo alla strada. L’eversione può essere semplice e rapida.
Protocolli inattesi. Nel frattempo lucide consapevolezze e nuove professioni si fanno strada: Bjarke Ingels diventa chief architect, per la prima volta, per We Work, una compagnia statunitense di coworking spaces. Con lo studio Big, Ingels ha ridisegnato aree pubbliche come Superkilen e le nuove isole galleggianti di Copenhagen. Dal basso, i millennials del continente africano stanno modificando le dinamiche sociali ed economiche reinventando i meccanismi che sovrintendono ai servizi finanziari, ai micro-pagamenti e alle relazioni commerciali. Per le campagne girano librerie e musei ambulanti in furgoncini insospettabili, come il Vermont International Museum of Contemporary Art + Design Mobile Museum in cui l’artista canadese Matt Neckers ha allestito un vero e proprio museo della taglia di un plastico progettuale, rivelando intenzioni più ironiche che rituali.
Negli anni recenti si è rafforzata la convinzione – già ampiamente diffusa – che il mercato dell’arte potesse rappresentare un rifugio contro le dinamiche di un’economia in ebollizione; ciò ha inevitabilmente generato processi opachi di produzione e scambio, instillando dubbi sull’autenticità di molte opere che navigano tra il mercato primario e quello secondario, e scoprendo l’oscurità del collezionismo d’arte da parte delle mafie. Una soluzione centralizzata è apparsa rischiosa, dal momento che avrebbe addensato in un unico centro l’informazione dalla quale il valore viene generato e modificato. La risposta, del tutto in linea con l’insorgere di garanzie credibili in quanto decentrate, ha fatto ricorso alla blockchain come sistema di certificazione. E’ il caso di ‘bronzechain’ che copre le opere di Maurice Blik in seguito a un accordo tra DACS e Verisart, consentendo trasparenza anche per la valutazione degli Artist’s Resale Rights, il diritto di seguito che si scontra spesso con la bassa tracciabilità delle transazioni.