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Il procedimento denominato Project Mirror Intelligence – elaborato dal gruppo Tusci@network – ha l’obiettivo di fornire al navigatore una selezione ragionata di informazioni di natura economico–statistica in grado di riflettere la situazione contingente del “Sistema–Italia”.

L’Instant Book “Start PMI” ha cadenza mensile.
I dati contenuti in questo numero sono aggiornati al 31/3/2018.

Autori:

– Riccardo Cerulli

– Francesco Cacchiarelli

INDICE

1. EsperienzEuropa. Le best practice italiane (estratto da Mosaico Europa) – Unioncamere – 23 marzo 2018

2. I piani individuali di risparmio: quadro normativo e aspetti generali (estratto) – Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili – 21 marzo 2018

3. L’impatto economico dell’invecchiamento della popolazione e delle riforme pensionistiche (estratto da Bollettino Economico n. 2/2018) – Banca Centrale Europea – 22 marzo 2018

4. Congiuntura flash – Confindustria – 21 marzo 2018

5. Rapporto sulle economie territoriali (estratto) – Ufficio Studi Confcommercio – 13 marzo 2018

6. Monthly Outlook. Economia e Mercati Finanziari Creditizi marzo 2018 (sintesi) – Associazione Bancaria Italiana – 20 marzo 2018

7. Un settore privato che investe nell’economia reale (estratto da La visione e la proposta. Assise Generali 2018) – Confindustria – 16 febbraio 2018

Estratto:

5. Rapporto sulle economie territoriali (estratto) – Ufficio Studi Confcommercio – 13 marzo 2018

Con una variazione del PIL pari all’1,5% nel 2017, si archivia per l’Italia il quarto anno consecutivo in ripresa. Saranno sei nell’orizzonte del 2019.
Tre considerazioni raffreddano i possibili entusiasmi su questi risultati. Intanto, si è trattato di ripresa e non di crescita, dove con quest’ultimo termine si vuole indicare una fase espansiva del ciclo economico che permette di superare i picchi raggiunti in precedenza in un arco di tempo comparabile con quello in cui si è verificata la recessione. Così non è stato, e quindi è corretto limitarsi a definire ripresa l’attuale congiuntura favorevole.
In secondo luogo, il prodotto non ha mai raggiunto, dal 2014, cioè dall’inizio della fase di recupero dopo la crisi, un tasso di variazione tendenziale trimestrale – e, a maggior ragione, annuale – attorno o superiore al 2%, un target minimo per un riassorbimento abbastanza rapido della disoccupazione e di buona parte dell’area della povertà.
La terza considerazione è la meno rassicurante. Mentre è comprensibile il sentimento di speranza di migliorare nel 2018 le performance dell’economia nel complesso, emergono i primi segnali di rallentamento. L’ultimo quarto dell’anno scorso ha mostrato una variazione congiunturale dello 0,3% contro lo 0,4% del terzo trimestre. Non ha evidentemente giovato a sufficienza la crescita della produzione industriale in dicembre. D’altra parte, il PIL mensile Confcommercio, ponendo a sistema la riduzione della fiducia in gennaio con quella dei consumi a dicembre, gli ordini della manifattura con il rallentamento della crescita del valore aggiunto nei servizi, e considerando altri indicatori in alta frequenza, suggerisce che il primo trimestre del 2018 potrebbe mostrare una variazione tendenziale al di sotto dell’1,4%, testimoniando l’apertura di una fase di raffreddamento dell’attività economica.

L’esito elettorale, pur con sorprese, conferma le prospettive di un Governo senza solida maggioranza parlamentare. Qualcuno paventerebbe il pericolo dell’instabilità politica, ma, a ben vedere, i conti vanno fatti rapportando gli obiettivi della politica – se ci sono – agli strumenti per realizzarli (l’esecutivo, in primis). Se la collettività pone grandi domande e le élite politiche se ne fanno carico dandovi la forma di un progetto, allora l’impossibilità o la difficoltà di costruire un esecutivo stabile ed efficace che possa contribuire a fornire risposte adeguate, costituiscono un grave limite. Ma, in questa prima parte dell’anno 2018 qual è il grande progetto collettivo che gli italiani chiedono e le élite, interpretando, cercano di realizzare? Non c’è, a nostro avviso.
E quindi, riavvolgendo il nastro del ragionamento e senza avventurarsi in congetture temerarie, un governo per l’ordinaria amministrazione – che è pur sempre amministrazione e, talvolta, può essere anche buona amministrazione – sostenuto da una maggioranza di desistenza, è possibile. E, in particolare, sarebbe adeguato alla condizione di continuismo che sembra il destino a breve delle cose italiane.
L’Italia ha bisogno di un profondo processo di riforma, civile, prima che economica. Non sembra che ci siano, però, le condizioni per l’intrapresa, a breve termine, di questa necessaria fatica, processo che potrebbe essere innescato da uno shock di vasta portata. Secondo alcuni osservatori si andò vicino a un tale innesco nella tarda estate del 2011, ma non se ne colsero le opportunità. Oggi i mercati finanziari sembrano adeguarsi a questo futuro a brevissimo termine in cui l’Italia confermerebbe la sua tranquilla marginalità in Europa. Senza neppure troppe paure e nervosismi, se si considera che, a fronte del cinquanta per cento circa degli italiani che hanno dato preferenza a partiti euro-critici, immediatamente dopo le elezioni gli spread sui titoli decennali italiani hanno mostrato solo qualche oscillazione, per adagiarsi rapidamente sui livelli raggiunti prima della tornata elettorale.
In fondo, per gli operatori specializzati nei titoli sovrani non è successo granchè. Si può immaginare, anzi, che considerino – forse prematuramente e troppo ottimisticamente – praticamente impossibile l’avvio di una fase di smontaggio sistematico di quanto costruito, dal 2011 a oggi, in termini di riforme, seppure incomplete, e dell’aggiustamento dei conti pubblici. Ciò dà la cifra dell’esiguità della probabilità di cambiamento reale del Paese, almeno nell’orizzonte del futuro prevedibile. Rallentamento economico e sostanziale continuismo politico costituiscono, dunque, i punti di partenza delle considerazioni sviluppate nel Rapporto.

Ponendo a 100 il livello del PIL nel primo quarto del 2014 – cioè, alla fine dell’esperienza del governo Letta e quindi all’inizio del governo Renzi – nella graduatoria per crescita economica realizzata alla fine del 2017, l’Italia si posiziona al 25esimo posto su 26 paesi europei (tutti quelli per i quali si dispone di dati completi). La graduatoria della crescita tendenziale e congiunturale dell’ultimo trimestre del 2017 trova l’Italia al 24esimo e 22esimo posto rispettivamente. Stando a tali valutazioni comparative, conviene ammettere che il processo di ripresa sembra sia stato indotto in (piccola) parte dalle riforme adottate, in primis il Jobs Act e i dolorosi ma necessari provvedimenti sulle pensioni, e in (larga) parte dalle politiche monetarie accomodanti della BCE. Mancherebbe, insomma, una componente endogena, qualcosa che abbia coinvolto, in un vero progetto collettivo di crescita, imprenditori, lavoratori, consumatori, cittadini in generale.
Si considerino, a questo proposito, le decrescenti intensità medie di ripresa che hanno contraddistinto le ultime due fasi espansive del ciclo economico.
Dal secondo quarto del 2009 al secondo quarto del 2011 la variazione media congiunturale trimestrale è attorno allo 0,4%, inferiore allo 0,5% registrato tra il 2005 e l’inizio del 2008. L’attuale fase espansiva, invece, dura già da 19 periodi e, in prospettiva storica, è effettivamente lunga. Tuttavia, manifesta un’intensità dimezzata rispetto al ciclo precedente, pari allo 0,2% circa su base trimestrale. L’osservazione della figura A chiarisce, inoltre, che negli ultimi 13 anni nessuna espansione ha permesso di riconquistare il terreno perso durante la precedente recessione – nemmeno l’ultima, almeno non ancora.
Ora, se il tratto espansivo del ciclo porta crescita, ci può essere tra gli operatori la consapevolezza che si è fatto un pezzo di strada utile e il successivo rallentamento insito nella ciclicità delle dinamiche economiche non comporta delusione e rattristamento, ma solo una pausa, anche mentale, del tutto fisiologica, prima di tornare a crescere; ma se il tratto favorevole del ciclo è ripresa statistica senza una concreta diffusione di benessere, senza apprezzabili miglioramenti nel tenore di vita di molti se non di tutti, al rallentamento corrisponderà un rapido, ulteriore deterioramento dell’umore collettivo.
Questa digressione è stimolata dalle considerazioni contenute nell’ultimo Rapporto del Censis, a proposito del diffuso sentimento di “rancore” tra i cittadini italiani che sarebbe collegato con il blocco della mobilità sociale: la paura del declassamento è il nuovo fantasma sociale; cioè, in luogo di aspettative crescenti, come poteva essere ai tempi in cui si affacciava sul mercato del lavoro la generazione che adesso ha tra i 50 e i 60 anni, oggi il tema personale prioritario è la paura della perdita delle posizioni raggiunte (anche se modeste).
Il che torna bene con l’esperienza individuale di una ripresa lentissima come l’ultimo tratto della curva descritta nella figura A: il tema psicologico rilevante non è immaginare quale sarà la propria posizione nella scala sociale tra cinque-otto anni, quanto, invece, cosa potrebbe accadere in termini di reddito e condizioni di vita personali a fronte di un nuovo deterioramento della fase ciclica. Pertanto il rancore non sarebbe più soltanto “lutto di ciò che non è stato”, ma anche lutto per ciò che non sarà. E’, dunque, in parte, anche un rancore preventivo perché appunto non si alimenta esclusivamente del passato, ma anche del futuro, o meglio del mancato futuro. Se queste congetture sono credibili, bisogna trarne conclusioni anche sull’interpretazione dei climi di fiducia e sul loro ruolo di attivatori di comportamenti di spesa e di investimento. Oggi, diversamente che in passato, un clima di fiducia crescente potrebbe volere dire soltanto che non ci si aspetta a breve termine una nuova caduta, piuttosto che segnalare la percezione di migliori, concrete prospettive.

Nel biennio 2018-2019, l’effetto delle variabili internazionali sulla nostra economia dovrebbe risultare costante rispetto al recente passato. In altre parole, si sta considerando l’impulso alla crescita proveniente dalle economie emergenti un po’ più esiguo rispetto a quello, moderatamente peggiorativo, derivante dal verosimile incremento dei tassi d’interesse causato dal peggioramento delle condizioni monetarie. Prevale, nella determinazione del profilo evolutivo dell’economia italiana, l’insieme degli effetti derivanti dai fattori interni, effetti che comprimono, talvolta nascondono, la ripresa ciclica.
Permangono, infatti, irrisolti i difetti strutturali che imprimono un profilo piatto alla produttività totale dei fattori, la grande assente dal sistema produttivo da oltre 20 anni. Considerando il rallentamento della prima parte del 2018 e il perdurante impatto negativo dei problemi strutturali – eccesso di burocrazia e carico fiscale, difetto di legalità, di accessibilità territoriale e di qualità del capitale umano – la previsione di variazione del PIL per il 2018 si ferma a +1,2%, in ulteriore rallentamento a +1,1% l’anno seguente.
Queste previsioni già scontano la neutralizzazione completa delle clausole di salvaguardia per il 2019.
L’ipotesi di copertura della clausola per il 2019, il cui valore è di poco meno di 13 miliardi di euro, riproduce la prassi adottata negli ultimi anni, cioè l’espansione del deficit in rapporto al PIL rispetto ai valori a legislazione vigente. In ipotesi, appunto, il deficit 2019 sarebbe incrementato di quattro-sette decimi di punto di PIL – dallo 0,9% indicato nell’ultima Nota di Aggiornamento al DEF fino al limite dell’1,6% programmato per il 2018, fornendo tutte o quasi le risorse utili a neutralizzare gli aumenti IVA che altrimenti scatterebbero dal primo gennaio 2019.
Il punto problematico delle clausole per il 2019, seppure scarsamente trattato durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 4 marzo 2018, è di primaria importanza per tutti gli istituti di previsione. Secondo il CER, per esempio, gli aumenti dell’IVA già programmati, se fossero realizzati comporterebbero una riduzione del tasso di variazione del PIL di due decimi nel 2019 e di sei decimi nel 2020. E’ impossibile ottenere entro il prossimo DEF – aprile 2018 – una dichiarazione d’intenti nella direzione della sterilizzazione delle clausole. Che si debba rimandare la decisione, per doverose questioni politiche, non giova certo alla fiducia di imprese e famiglie.

Il tema centrale di questo Rapporto è la dimensione regionale della ripresa e la valutazione territoriale delle prospettive economiche per il biennio 2018-2019.
Verso la metà del 2017, subito dopo la pubblicazione dei conti territoriali relativi al 2015, è emerso un certo ottimismo sulla supposta nuova e migliorata condizione del Mezzogiorno. Tale suggestione era alimentata dalla constatazione che i dati statistici indicavano nel 2015 per il Sud del Paese una crescita superiore a quella delle altre ripartizioni geografiche. Quell’ottimismo, è largamente ingiustificato. Intanto, considerando che molte regioni del Sud presentano livelli di PIL per abitante anche sotto la metà di quello delle migliori regioni del Nord, perché le distanze si riducano è necessario osservare tassi di variazione più che doppi nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese.
Non è opportuno festeggiare (la presunta riduzione dei divari) sulla base di qualche decimo di punto di differenza nei ritmi di crescita. Inoltre, secondo l’Istat, nel 2016 i tassi di variazione del prodotto non sono stati dissimili tra le ripartizioni geografiche, né il 2017 dovrebbe avere mutato quest’inerzia.
L’unico parametro dinamico su cui il Sud appare comportarsi meglio della media nazionale è il rapporto tra occupati e popolazione: purtroppo la ragione risiede nel denominatore, in evidente calo a causa tanto della denatalità quanto della migrazione interna che impoverisce il capitale umano del Meridione d’Italia. Un’evidenza non certo confortante in prospettiva futura. Il riflesso di queste dinamiche è illustrato in modo compatto attraverso il confronto delle quote di prodotto per macro-aree geografiche in due punti distanti nel tempo. Nel Mezzogiorno, che conta ancora per oltre un terzo della popolazione residente, la quota di prodotto è oramai inferiore al 23%, essendosi ridotta di un punto percentuale rispetto al 2007.
Non ci sono elementi concreti per immaginare un’inversione a breve termine di questa tendenza.

Le determinanti del ritardo di alcuni territori e dell’incremento dei divari Nord-Sud sono molteplici. Dal punto di vista economico una rappresentazione convincente deriva dai risultati della stima di una funzione di produzione, che in questo Rapporto è stata sviluppata su base regionale (le valutazioni in dettaglio sono presentante in Appendice, mentre qui si forniscono solo le principali evidenze aggregate sulle ripartizioni).
Oltre all’input di lavoro e di capitale, è la produttività multifattoriale a tracciare le linee evolutive del prodotto per occupato e, quindi, del reddito per abitante. Dentro la produttività totale dei fattori (PTF) c’è il progresso tecnico e organizzativo, la qualità del capitale umano e l’impatto delle variabili di contesto sul funzionamento delle imprese e sull’efficienza del lavoro.

L’accessibilità riproduce la carenza di infrastrutture, soprattutto materiali, che contraddistingue ancora diverse regioni meridionali.
La burocrazia, sulla base di un indice composito che valuta l’efficienza del sistema giudiziario e le lungaggini della pubblica amministrazione, funziona peggio al Sud, mentre il Centro è allineato alla media e Nord-est e Nord-ovest presentano parametri decisamente più elevati.
Miglioramenti significativi, nel decennio 2008-2017, si sono riscontrati sia al Centro che nel Nord-est. L’indice di illegalità ha una distribuzione meno ovvia, perché è frutto della ponderazione di due sub-indici che riguardano i reati contro le imprese e contro le persone. Sono elevati i tassi di criminalità contro le imprese nel Mezzogiorno e contro le persone nel Nord-ovest, fenomeno, quest’ultimo, legato certamente alla presenza cospicua di immigrati non regolari. In termini dinamici, il tasso complessivo di illegalità peggiora nel Mezzogiorno (grassetto corsivo) e migliora nel Centro e nel Nord-ovest.
Per quanto riguarda l’indice di capitale umano, la cui costruzione utilizza gli anni medi di istruzione degli occupati con il punteggio OCSE-PISA rilevato alcuni anni prima nella stessa regione, è opportuno evidenziare che dalle stime emerge un suo forte impatto in termini di prodotto per occupato; pertanto, una distanza di questo indice tra valori di 102-104 osservati nel Nord e nel Centro e valori attorno a 95 nel Sud, implica differenze ragguardevoli nella PTF e, quindi, nella dinamica dei redditi per abitante delle diverse regioni italiane.
La distribuzione del rapporto capitale/lavoro risente sia del più elevato tasso di ammortamento implicito nelle stime del Nord-ovest, sia della riduzione delle ULA nel Mezzogiorno. Il fatto che il capitale per occupato nel Sud sia non dissimile dal rapporto medio per l’intero Paese potrebbe essere un buon segnale per le prospettive a medio-lungo termine. In generale, l’eventuale miglioramento delle variabili di contesto per il Sud effettivamente potrebbe innescare un recupero significativo della PTF e del prodotto per unità di lavoro proprio nel Mezzogiorno. Potrebbe essere questa la migliore strategia per la crescita non solo del Sud quanto piuttosto dell’intero Paese.
A conferma di questa suggestione, si può osservare la dinamica della produttività multifattoriale nel tempo per le quattro ripartizioni geografiche.
A fronte di una crescita significativa della produttività multifattoriale nel Nord-est, e di un’evoluzione moderata ma comunque favorevole nel Centro e nel Nord-ovest, la produttività sistemica si sarebbe ridotta di circa il 7% nel Mezzogiorno tra il 1996 e il 2017. In altre parole, in modo approssimativo, si potrebbe sostenere che l’Italia ha una serie di problemi che possono essere assemblati in un’unica metrica, quella territoriale: il problema “Italia” è in larga misura l’arretramento strutturale del Mezzogiorno, un’area che, come detto, vale (ancora) oltre un terzo della popolazione e quasi quarto del prodotto lordo. Naturalmente questa conclusione ha natura solo preliminare sia per il fatto di non tenere conto delle tante differenze regionali – anche all’interno dello stesso Mezzogiorno – sia perché non argomenta attorno alle specifiche ed eterogenee dinamiche delle componenti della PTF (cosa che peraltro viene fatta nel resto del Rapporto). Però ha il pregio di evidenziare sinteticamente dove si è inceppato il funzionamento del sistema produttivo e quanto questa patologia pesi in termini di parametri aggregati su base nazionale.

Quanto incidono i problemi strutturali che, considerati nel complesso, hanno determinato la prolungata stagnazione della PTF?
Nell’esercizio riassunto in tabella E si è assegnato a ciascuna regione italiana il livello migliore delle quattro determinanti della PTF riscontrato nel 2017 (tra le venti regioni, ovviamente). Portare tutte le regioni all’efficienza burocratica riscontrata in Trentino Alto Adige implicherebbe una crescita del prodotto dell’1,1%; così si ottengono anche gli altri risultati per l’illegalità, l’accessibilità e il capitale umano. Sommando tutti gli effetti si otterrebbe una crescita del PIL, ad aggiustamento completato, di oltre il 10%, pari a quasi 179 miliardi di euro in termini reali. L’esercizio merita almeno tre considerazioni. La prima riguarda l’orizzonte temporale in cui si realizzerebbero questi shock e le conseguenti risposte del sistema economico. Si tratta di un periodo esteso durante il quale si trasporterebbe il sistema produttivo in acque meglio navigabili: con meno burocrazia, meno illegalità, maggiore accessibilità e migliore capitale umano.
Non si tratta, però, di una simulazione di fantasia: gli shock imposti sono tratti dall’esperienza reale di almeno una regione. Quindi, è un’ipotesi di estensione di pratiche correnti (sebbene tratte da un calcolo aggregato su territori estesi come le regioni).
La seconda riflessione è sull’ammontare del risultato in termini di maggiore PIL. Anche in questo caso 179 miliardi di euro di maggiore ricchezza reale prodotta a fine periodo – e replicabile annualmente da quel momento in poi – potrebbe apparire come un obiettivo straordinario. Ma non lo è, se si considera che questa maggiore ricchezza si raggiungerebbe, nell’arco di otto anni, per esempio, con una crescita di poco più dell’1,1% aggiuntivo all’anno rispetto a una qualsiasi ipotesi evolutiva in assenza di shock. Pertanto, è abbastanza evidente che la differenza tra le dinamiche attuali – tra l’1 e l’1,5% annuo – e quelle dei nostri partner europei più brillanti – tra il 2 e il 2,5% – si può colmare proprio modificando in meglio le determinanti della PTF. La terza considerazione riguarda la distribuzione territoriale dei vantaggi, che sarebbe parallela a quella degli sforzi: a shock percentuali maggiori, corrisponderebbero benefici maggiori. E questo varrebbe per il Sud, che dovrebbe coprire maggiori distanze per raggiungere la regione migliore su ciascuno dei parametri considerati. Ma che, d’altra parte, beneficerebbe di oltre la metà dell’incremento di ricchezza previsto per il complesso dell’Italia. La nuova e migliore Italia presenterebbe squilibri territoriali meno problematici. Ad aggiustamento completato, il rapporto tra il PIL pro capite del Sud e quello del Nord crescerebbe dall’attuale 54,4% al 65,8%. La quota complessiva del valore aggiunto prodotto nel Mezzogiorno, rispetto al totale Italia, passerebbe dal 23% al 25,6%. Una tendenza del tutto nuova rispetto alla storia economica italiana degli ultimi trent’anni.

Se dunque, in teoria, c’è spazio per miglioramenti considerevoli del sistema produttivo – e sociale – del Paese, la macroeconomia di breve periodo non promette spunti particolarmente brillanti. Le previsioni per ripartizioni estendono al biennio 2018-2019 le dinamiche già osservate negli anni più recenti; anche in proiezione futura, i buoni impulsi variamente provenienti dalla vitalità dell’export e del turismo, rimangono schiacciati dall’effetto dei gap strutturali.
La popolazione continuerebbe a ridursi nel Mezzogiorno, mentre proseguirebbe, anche grazie ai provvedimenti del governo sulla decontribuzione delle assunzioni nel Mezzogiorno, la crescita delle unità di lavoro standard.
Il rallentamento della ripresa aggregata, nonostante un positivo, ancorché modesto, contributo della produttività multifattoriale, si distribuirebbe in modo omogeneo nelle diverse regioni. I consumi evolverebbero a tassi inferiori a quelli del prodotto, determinando una moderata riduzione della propensione al consumo. Il futuro prossimo, quindi, riprodurrebbe la crescita lenta, insufficiente, del recente passato, in un contesto caratterizzato da peggiori condizioni internazionali.
In prospettiva, dunque, né la riduzione della disoccupazione giovanile, né la riduzione dell’area della povertà assoluta si realizzerebbero, almeno in misura apprezzabile. Lo scenario continuista, qui tracciato, manterrebbe quasi invariati i difetti strutturali che affliggono il Paese, in particolare il Mezzogiorno. Dopo oltre 150 anni di storia unitaria dell’Italia, c’è ancora una “questione meridionale” da risolvere.