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Il procedimento denominato Project Mirror Intelligence – elaborato dal gruppo Tusci@network – ha l’obiettivo di fornire al navigatore una selezione ragionata di informazioni di natura economico–statistica in grado di riflettere la situazione contingente del “Sistema–Italia”.

L’Instant Book “Start PMI” ha cadenza mensile.
I dati contenuti in questo numero sono aggiornati al 31/10/2017.

Autori:

Riccardo Cerulli
Francesco Cacchiarelli

INDICE

1. Relazione sugli interventi di sostegno alle attività economiche e produttive – Ministero dello Sviluppo Economico – settembre 2017
2. Analisi e previsioni per il trasporto merci in Italia – Ufficio Studi Confcommercio – ottobre 2017
3. Congiuntura flash – Centro Studi Confindustria – ottobre 2017
4. Occupati e disoccupati – ISTAT – settembre 2017
5. Di pubblica utilità, nuove geografie del valore – Fondazione Symbola – rapporto 2017

Estratto: Sintesi dei principali risultati
Questa Nota è redatta mentre i principali previsori nazionali e internazionali modificano al rialzo le previsioni di crescita. In alcuni casi la revisione appare eclatante, ma in ragione non di un target straordinario che non si sperava di raggiungere (circa 1,5% la variazione del PIL reale) quanto per l’inadeguatezza della precedente valutazione (attorno allo 0,8%).
Le previsioni di Confcommercio vengono moderatamente innalzate: da 1,1% a 1,3% per il 2017, aggiustando all’1,2% la crescita prevista per il 2018 (da +0,8%).
Come le previsioni presentate a marzo 2017 presso il Forum di Cernobbio sembrarono ad alcuni eccessivamente ottimistiche, quelle odierne potrebbero apparire un po’ pessimistiche. Tuttavia, i timori di rallentamento dell’economia italiana, qui esplicitati, sono implicitamente condivisi dalle principali istituzioni internazionali, come è dimostrato dalla riduzione dei tassi di variazione del prodotto lordo suggerite per l’anno 2018 nelle loro previsioni.
Nelle valutazioni macroeconomiche alla base delle previsioni di traffico presentate in questa nota, il rallentamento della crescita dell’attività economica è anticipato alla parte finale dell’anno in corso. Le oscillazioni nei consumi e l’entrata in terreno negativo della dinamica di alcune voci di investimento inducono a una certa cautela. Il recente boom registrato dal clima di fiducia delle famiglie non è di facile interpretazione, mentre il sentiment delle imprese, nel loro insieme, risulta incerto.
Rispetto a un obiettivo di crescita duratura attorno al 2%, un target che potrebbe essere coerente con un processo di riduzione dell’area della povertà assoluta e di riassorbimento della disoccupazione giovanile, le prospettive restano deboli, anche per via delle incertezze che si addensano sullo scenario internazionale.
D’altra parte, fuori dalle considerazioni congiunturali, sono ancora sul tappeto i nodi irrisolti che frenano la crescita dell’economia italiana. Alto debito pubblico ed elevata pressione fiscale, eccesso di burocrazia e deficit logistici concorrono a tenere bassa la produttività sistemica del Paese, ben al di là delle questioni legate alla dimensione d’impresa e al modello di specializzazione produttiva.
Dentro uno scenario macroeconomico piuttosto complesso, la logistica e i trasporti sono interessati da modificazioni tanto sul piano dell’organizzazione produttiva quanto su quello legislativo e istituzionale. Vi sono ottime ragioni, dunque, per tornare, in questa nota, su un tema innovativo, peraltro già abbozzato in passato, ossia il tentativo di superare i tradizionali approcci interpretativi del mondo dei trasporti, sperimentando nuovi modelli di analisi dei fenomeni della mobilità e della logistica.
Gli approcci più diffusi (mainstream) leggono le singole modalità di trasporto con una buona approssimazione, ma offrono una visione parziale per quanto riguarda, ad esempio, la ripartizione modale del traffico. Quest’ultima di solito viene calcolata all’interno di ambiti di spostamento contendibili (dove cioè sia possibile utilizzare le quattro modalità di trasporto, come fra loro fungibili o alternative) con evidenti difficoltà di comparazione tra vettori terrestri e vettori marittimi e aerei, restituendo un’immagine statica e segmentata della realtà dei trasporti in Italia.
In particolare, queste letture raffigurano un mercato della mobilità delle merci sostanzialmente dominato dall’autotrasporto per quanto riguarda gli spostamenti continentali e dalla nave per quanto riguarda quelli intercontinentali. Questa rappresentazione tradizionale attribuisce all’autotrasporto una quota del 75% del trasporto terrestre europeo, senza considerare che una parte rilevante di questo traffico è generato dal mare ossia trasferito da una nave su un camion, e al trasporto marittimo oltre il 75% degli spostamenti di merce in import-export dal continente, non considerando che una parte non marginale di tale traffico arriva alla nave grazie ai camion. Per restituire un’immagine meno sfuocata della realtà dei trasporti in Italia e più pertinente rispetto alla reale configurazione del mercato, il modello di analisi proposto prende in considerazione contestualmente i volumi trasportati e le distanze percorse (tonnellate-chilometro) dai quattro vettori negli spostamenti con origine e/o destinazione nel Paese (traffico interno, import ed export) senza vincoli di contendibilità e ampliando l’ambito territoriale di riferimento dai confini nazionali terrestri allo spazio acqueo e aereo che ricade sotto la giurisdizione nazionale al netto di tutti i traffici di transito. I risultati di questa lettura sono sintetizzati nella tabella A che include anche la stima per il 2016 e le previsioni per il biennio 2017-2018.
Il suddetto schema disegna un sistema che poggia in primo luogo sul trasporto marittimo quale primario attrattore di traffico e su quello stradale quale principale vettore di raccordo verso la destinazione finale della merce. Queste due modalità assorbono insieme oltre il 95% dei percorsi svolti dalla merce (nel 2015 mare 58,2%, strada 36,9%). Rispetto alla rappresentazione mainstream emerge la realtà di un’Italia in cui esistono importanti scambi via mare, qualcosa leggermente più in linea con l’idea del Paese – e soprattutto del suo Mezzogiorno – quale piattaforma logistica del Mediterraneo, come spesso si sente ripetere, forse con un po’ di entusiasmo e troppa superficialità.
Guardando all’evoluzione del traffico dal 2003 al 2015 si avverte una generalizzata diminuzione dei volumi, salva la tenuta del ferro e la crescita del trasporto aereo, il quale ha però un peso in volume particolarmente esiguo. Una parte consistente di questa riduzione deriva dalla forte contrazione del PIL (settima colonna di tab. A). Un’altra parte dipende dalla terziarizzazione dell’economia, come testimoniato dal fatto che la correlazione della dinamica del traffico complessivo di merci col valore aggiunto dell’industria è maggiore di quella con il prodotto lordo. In altre parole, la composizione del PIL si evolve verso settori (il terziario) la cui produzione implica un minore input di trasporto.
La parte residuale della differenza tra riduzione di lungo termine del volume di merci e riduzione del livello delle variabili economiche dipende dalla razionalizzazione logistica (o, altrimenti detto, del grafo della rete): a parità di PIL e di altre condizioni, compresa la composizione dello stesso PIL, sono necessari oggi minori t-km di merci, verosimilmente perché diminuisce la componente spaziale dell’indicatore (i chilometri percorsi mediamente da una tonnellata di merce).
L’evoluzione del traffico merci in Italia, secondo la ricostruzione adottata, è coerente, quindi, con le dinamiche del PIL e dell’attività manifatturiera. Dal 2015 si manifestano segnali inequivocabili di ripresa del traffico merci, seppure su livelli molto distanti. Il trend di riduzione dell’input di trasporto non è senza limiti e gli spazi per un ri-accoppiamento (coupling) tra crescita del PIL e crescita della mobilità di merci sono ancora presenti. Il che ha un’implicazione anche “politica”: pensare di abbandonare a se stesso il traffico merci, perché è avviato lungo un inevitabile trend di riduzione, sarebbe un errore. Le previsioni al 2018 indicano, infatti, un consolidarsi della ripresa della mobilità delle merci in accordo con la ripresa dell’attività economica.
Insomma, per fare più PIL c’è bisogno certo di un migliore traffico di merci, ma in qualche misura c’è anche bisogno di maggiore traffico di merci. L’evoluzione sulle singole modalità, infine, chiarisce che sono i rapporti tra modalità – il mare che alimenta la gomma e la gomma che controalimenta il mare – a essere le nuove sfidanti questioni del sistema dei trasporti italiano.
In ogni caso è evidente la riduzione della frazione di traffico soddisfatta dalla gomma. Nel complesso, le analisi e le previsioni appena presentate possono essere lette in chiave più strategica, chiarendo alcuni aspetti che prescindono dalle dinamiche di breve periodo, anche se le influenzano.
In primo luogo, il ruolo strategico della portualità nel quadro del rafforzamento del sistema trasportistico nazionale. I porti sono le valvole cardiache che garantiscono l’afflusso di beni nel Paese; se i porti offrono servizi efficaci ed efficienti il sistema funziona e i trasporti diventano il volano degli scambi commerciali; se ciò non avviene essi si trasformano in trombi e il sistema ne soffre. Questo è anche il senso di conteggiare il traffico marittimo internazionale per la parte che si sviluppa nelle acque della piattaforma continentale.
In secondo luogo, i camion e la ferrovia si stanno organizzando per assorbire il flusso di merce in entrata ed in uscita dai porti. Le recenti performance positive del trasporto ferroviario di merci testimoniano come fra l’altro tra gomma e ferro stia avvenendo non solo uno shift modale, ma anche una progressiva integrazione (trasporto non accompagnato e autostrada viaggiante): la crescita prevista delle t-km per le due modalità nell’arco di tempo 2016-2018 è, infatti, analoga (circa quattro per cento per la gomma e attorno a cinque punti e mezzo per il ferro). Una lettura più dinamica e olistica del mondo dei trasporti consente di cogliere chiavi interpretative che superano alcuni luoghi comuni, primo fra tutti quello della concentrazione del traffico sui camion. Inoltre, si smentisce la sensazione diffusa di questo segmento come un universo caotico e squilibrato, consentendo di apprezzarne invece l’equilibrio e la capacità di assorbire le quote crescenti di traffico che saranno alimentate dal ritorno alla crescita, sia dell’Italia, sia del resto delle economie europee.
Un sistema complessivamente sano, ma – è importante sottolinearlo – aperto, in cui cioè agiscono operatori dei trasporti nazionali ed esteri.
Elementi di criticità emergono dall’analisi delle merci in entrata e in uscita dall’Italia attraverso la gomma (tab. B). Nel 2005, 36,9 miliardi di t-km in entrata e in uscita dall’Italia erano lavorate da autoveicoli immatricolati in Italia, 42,7 miliardi di tonnellate erano appannaggio di altri Paesi tradizionalmente forti nell’autotrasporto – tra cui Germania e Spagna – e i veicoli immatricolati nell’Est europeo coprivano il 15,5% della domanda. Già prima della crisi i veicoli italiani perdevano rapidamente tonnellate e quote di mercato. Il fenomeno si è acuito durante la doppia recessione e non si è fermato neppure durante la timida ripresa del biennio 2014-2015.
In termini di quote di mercato i veicoli italiani hanno perso 23 punti percentuali (passando dal 36,4% del 2005 al 13,4% del 2015), tutto a beneficio dei nuovi entranti che partendo dal 15,5% del traffico raggiungono nel 2015 una quota di mercato di oltre il 55%.
Dietro questi sconvolgimenti – è proprio il caso di usare questo termine per descrivere un’evoluzione del genere – c’è naturalmente l’effetto della prepotente affermazione delle imprese dell’Est europeo, via competitività di prezzo (basso costo del lavoro), fenomeno sostenuto da un’incerta regolamentazione che ha consentito varie forme di concorrenza, per così dire, problematica.
Tuttavia, l’ultima colonna della tabella B evidenzia che c’è dell’altro. Infatti, nei dieci anni che vanno dal 2006 (compreso) al 2015, l’Italia perde molto di più degli altri concorrenti tradizionali: -69,2% rispetto a -49,7%, una distanza di 20 punti percentuali che non può essere attribuita al caso.
Evidentemente le politiche, la legislazione e le strategie implementate in Italia hanno funzionato peggio che negli altri Paesi nostri partner-concorrenti nell’autotrasporto. Naturalmente potrebbe obiettarsi che un’eventuale “aggressione” di altri mercati da parte dell’autotrasporto italiano mitigherebbe o annullerebbe la portata negativa delle precedenti considerazioni; per esempio, sarebbe possibile che la rinuncia a servire il mercato interno da parte dei trasportatori italiani sia conseguenza della scelta di concentrarsi su altri mercati. Purtroppo i dati riportati nella tabella C smentiscono la plausibilità di questa confortante congettura.
Considerando i 29 Paesi europei (l’Unione europea, più Regno Unito e Svizzera), le tonnellate trasportate ovunque da veicoli immatricolati in Italia scendono in percentuale identica (quasi 70%) rispetto alla perdita delle tonnellate trasportate dagli italiani in Italia (tab. B). Non è così per gli altri Paesi tradizionali, cioè dotati storicamente di un importante settore di autotrasporto di merci: le loro perdite complessive sono circa quaranta punti percentuali meno rilevanti delle perdite italiane, segno incontrovertibile, a questo punto, che Paesi esposti ai medesimi shock – euro, crisi, dumping di costo di nuovi autotrasportatori – hanno reagito in modo profondamente differente. Non si può trascurare di sottolineare il quasi annientamento della quota di mercato italiana sul traffico internazionale, ormai attorno a un impressionante due per cento. Per quanto riguarda l’Italia, si deve concludere che deve esserci qualche specifico deficit sistemico che colpisce la vitalità dell’autotrasporto di veicoli immatricolati nel Paese.
Che una parte delle imprese italiane abbia delocalizzato, mantenendo la proprietà in tutto o in parte delle aziende di autotrasporto, o abbia semplicemente abbandonato il Paese per lavorare con leggi e costi di altre economie non fa troppa differenza. Si è in presenza di una perdita netta di un settore produttivo: dopo la deindustrializzazione che ha investito settori strategici dell’economia italiana, quanto appena visto appare come un brutto sintomo di de-terziarizzazione, anch’essa riguardante un settore particolarmente rilevante per il funzionamento dell’intero sistema produttivo nazionale.
Sintomo pericoloso, tanto più che le prospettive complessive della mobilità di merci, come visto, non sembrano affatto buie. La nuova e aggiuntiva domanda prospettica – circa 6,3 miliardi di t-km nel triennio 2016-2018 – però, in queste condizioni, difficilmente andrà a vantaggio dell’autotrasporto italiano.
Oltre ai limiti infrastrutturali, cui si è già fatta menzione nei precedenti Rapporti, emergono ulteriori elementi di preoccupazione.
Tra le ragioni della marcata esterofilia che contraddistingue quello che era l’autotrasporto italiano – che oggi avendo perso 52 miliardi di tonnellate-chilometro sui traffici internazionali ne copre solo 23 – oltre ai ben noti vantaggi legati al costo del lavoro e al fisco, vi è anche un sistema burocratico che, con il suo malfunzionamento, limita l’attività ed erode sia il fatturato sia il valore aggiunto generato dalle imprese. Il monitoraggio delle dimensioni del fardello burocratico sopportato dalle imprese di trasporto italiane – su strada e via mare – ha evidenziato, per quanto riguarda le imprese di navigazione, la sovrapposizione di procedure macchinose che intralcia l’organizzazione della composizione degli equipaggi e incide sulla programmazione dell’impegno della flotta. In relazione all’autotrasporto, appare particolarmente grave la fragilità del sistema di controllo tecnico dei veicoli che poggia su una rete di uffici decentrati della Motorizzazione Civile, di frequente sottodotati e sicuramente non in grado di reggere l’onere amministrativo generato dalle verifiche annuali della flotta nazionale.
A ciò deve aggiungersi, nello specifico campo dei trasporti eccezionali, il sopraggiunto sostanziale blocco del rilascio delle necessarie autorizzazioni da parte delle Amministrazioni.
Si sono, infatti, recentemente consolidate: rescrizioni eccessive nelle autorizzazioni, testimonianza di un’amministrazione pubblica spesso più preoccupata a tutelarsi che a concedere una congrua e adeguata autorizzazione al transito; difformità applicative e interpretative, a livello territoriale, nel rilascio delle autorizzazioni; dilatazioni estreme dei tempi per il rilascio; lievitazioni dei costi per le verifiche tecniche dei manufatti impropriamente posti a carico dei vettori.
Le imprese lamentano complessivamente gli appesantimenti delle procedure e le dilatazioni di costo dovuti agli interventi del legislatore o dei ministeri vigilanti.
Nel caso delle imprese di navigazione i controlli previsti per le certificazioni considerate potrebbero essere sensibilmente ridotti solo delegando al Comando Generale delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera – in funzione di organo tecnico del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti responsabile della gestione amministrativa e funzionale della sicurezza della navigazione – la modifica dei regolamenti attuativi delle normative di riferimento.
Nel caso delle aziende di autotrasporto, per quel che concerne ad esempio le revisioni annuali, il panel consultato segnala l’incremento dei costi a causa dell’allungamento dei tempi per l’esperimento degli esami necessari per la revisione dei mezzi (il cosiddetto nastro operativo) provocati dall’applicazione di una serie di circolari che ne hanno modificato le modalità di organizzazione.
Ciò sta comportando, oltre ad un incremento dei tempi di verifica dei mezzi, anche dei costi di gestione di tali procedure, non di rado affidate a soggetti terzi. Si tratta di un aggravio di costi valutato in circa 50 euro per pratica, che aggiungerebbe ulteriori 25 milioni ai costi registrati oggi per il complesso del comparto. Il fardello amministrativo sembra dunque oneroso, soprattutto se si considera anche il danno determinato dall’inefficienza della macchina amministrativa.
Nell’ambito dell’esercizio condotto si è provato a stimare, a partire dalle indicazioni delle aziende, la differenza tra il tempo congruo per completare gli adempimenti selezionati (immaginando, dunque, un’amministrazione efficiente), e quello effettivo (sperimentato quotidianamente dalle imprese nel rispetto degli obblighi). Per attribuire un valore a tale differenza media si è considerato il valore economico di un eventuale fermo mezzo (nave o camion) in termini di mancato ricavo giornaliero e – nel caso dell’autotrasporto – anche di mancato guadagno in termini di riduzione del Margine Operativo Lordo (MOL) dell’impresa.
La proiezione all’universo dei ritardi cumulati dalle imprese di navigazione tenute ad ottemperare a tali obblighi genera un danno che si colloca poco sopra i 140 milioni di euro, mentre per il complesso delle imprese di autotrasporto la dimensione dell’impatto negativo di tali ritardi in termini di mancato fatturato si pone in prossimità dei 790 milioni di euro e supera i 260 milioni di euro in termini di mancati guadagni.
Una perdita che, dentro la ripresa lenta e dopo la doppia recessione, il settore dell’autotrasporto e l’intero impianto logistico e dei trasporti a servizio della produzione nazionale non possono permettersi.
Inoltre, nonostante la “cura del ferro” promossa dall’Esecutivo, la vitalità del trasporto ferroviario è ancora frenata da pesanti barriere all’entrata sul fronte della composizione dell’equipaggio di guida dei convogli, dei criteri per il rilascio dei certificati di sicurezza e delle modalità di calcolo dei pedaggi nei traffici internazionali (cfr. par. 1.4), che limitano la competitività del trasporto intermodale.
Per correggere questi difetti Conftrasporto-Confcommercio ritiene vadano perseguite le seguenti priorità:
– modifiche al “pacchetto mobilità” presentato dalla Commissione Europea, con più efficaci disposizioni di contrasto della concorrenza sleale e del dumping sociale nell’autotrasporto: nessuna ulteriore liberalizzazione del cabotaggio, senza preventivo riallineamento delle differenziate condizioni di contesto (fisco e previdenza in primis) in cui operano le imprese del continente;
– in tema di tariffazione dell’uso delle infrastrutture, completa ed efficiente applicazione del principio “chi più inquina più paga” a tutti gli utilizzatori delle stesse, con meccanismi premiali per le soluzioni di trasporto più sostenibili;
– definizione di un nuovo strumento europeo per incentivare il trasporto combinato;
– sblocco del sistema dei trasporti eccezionali su strada in Italia: criteri uniformi nazionali per il rilascio delle autorizzazioni, potenziamento degli organici degli uffici tecnici, catasto delle strade, procedure telematiche e sportelli unici;
– piena attuazione della strategia organica d’intervento nel settore “Connettere l’Italia”, (accessibilità e connettività dei territori, intermodalità, cura del ferro, cura dell’acqua, sistemi di trasporto rapido di massa nelle città);
– coerente strategia d’attuazione del Piano nazionale Strategico della Portualità e della Logistica e della conseguente riforma della “Governance portuale”, piena operatività della Conferenza Nazionale di Coordinamento delle Autorità di Sistema Portuale, e del coinvolgimento dei rappresentanti degli operatori;
– determinato perseguimento degli obiettivi fissati dalla Direttiva DAFI per la diffusione dell’infrastruttura per i combustibili alternativi;
– riforma del sistema di adempimenti amministrativi a carico dei vettori anche in tema di sicurezza, per renderlo efficace e non meramente burocratico/formale, coerente con le pratiche internazionali, proporzionato agli effettivi rischi, non discriminatorio e rispettoso delle esigenze di operatività delle imprese (revisioni, certificazioni di sicurezza ferroviaria e marittima);
– nel trasporto ferroviario modulo di equipaggio ad “agente solo”, efficientamento dell’attività di manovra ferroviaria e potenziamento dei terminal intermodali.